In nome del decoro, una recensione

di: Enrico Bocchini

Chi è che non ha mai sentito parlare di quelle misure in tutela del quieto vivere e della normalità? Chi è che non frequenta pagine social che fanno riferimento a realtà cittadine? Quelle dove ci si confronta sui problemi comuni della propria città e dove spesso si alzano i toni arrivando ad augurare la morte al barbone che rovista nella spazzatura, all’extracomunitario che bivacca, al venditore abusivo, agli studenti che bevono la birra in piazza?

Tutti questi comportamenti vengono definiti “degrado”, ovvero il problema, mentre la cura è indicata nel “decoro” e nella sua difesa. Una delle frasi più comuni nel dibattito pubblico di oggi è proprio questa:”è una questione di decoro”, ma cosa ci sta dietro le politiche giustificate in suo nome? Cos’è il degrado e chi sono gli indecorosi? E qual è la trasformazione degli spazi pubblici investiti dalle politiche del decoro in termini di vivibilità e attraversabilità? Non sono tanti i libri che affrontano queste tematiche, soprattutto tenendo conto della centralità che hanno assunto oggi. Uno di questi è “In nome del decoro – Dispositivi estetici e politiche securitarie”,un saggio edito da Ombre Corte e stampato a fine 2017. Il tentativo di questo saggio di novanta pagine è proprio quello di accendere un faro per illuminare tutto un mondo che ruota intorno alle politiche del decoro, svelandone le ombre e i non detti, con un approccio multidisciplinare tramite il quale viene affrontato l’argomento.

Temi come quello della sicurezza (intesa come tutela dai crimini di strada) e il decoro si sono da tempo imposti nel panorama politico del nostro paese da destra a sinistra. Nel 2008 si è legiferato per dare nuovi poteri ai sindaci come ufficiali di governo. Ci ricordiamo tutti dei famosi “sindaci sceriffi” che hanno iniziato a governare a suon di ordinanze. Ma, come spiegato nel libro, il retroterra culturale a cui attinge la cultura del decoro viene da più lontano, dalla New York degli anni novanta di Rudolph Giuliani e della tolleranza zero, quella che si basava sulla teoria sociologica delle finestre rotte.

Nel libro emerge con chiarezza l’insensatezza della retorica dominante sulla neutralità di quest’idea di sicurezza e di decoro. L’autrice dimostra come le politiche per il decoro abbiano come obiettivo quello di colpire gli spazi pubblici, di modificarli, irreggimentarli e limitarne l’accessibilità, fino a ridurli a un qualcosa di simile ad un cortile di condominio. I soggetti colpiti da queste politiche sono i poveri, i marginali, le attiviste e gli attivisti e chiunque per qualsiasi motivo rientra nella categoria di “non conforme”. Ovvero le stesse e gli stessi che, per un motivo o per un altro, vivono maggiormente gli spazi pubblici. Dall’altro lato viene incoraggiata la tendenza a sorvegliare e difendere i propri spazi privati da fantomatiche minacce esterne, da quei cittadini “permale” che infettano le nostre città. La conseguenza è quella di cittadini individualizzati che si rifugiano nella miseria dei propri tuguri e vivono nell’insicurezza. In questo senso regnano nel libro i riferimenti alla letteratura e alla cinematografia distopica da Ballard a Cronemberg, con immagini che per alcuni aspetti fotografano in maniera spaventosa la realtà.

Una divisione della società che viene sottolineata è quella in campi semantici, in “buoni e cattivi”, durante il fascismo la dicotomia era quella di ordine/disordine. Oggi invece, come scritto nel libro “Il conflitto informe/uniforme o se vogliamo degrado/decoro, sembra davvero l’ultima (nel senso di più recente) forma binaria prodotta per stabilire e mantenere un certo ordine sociale”. Il libro pone l’accento sull’estetica del decoro, un elemento, questo, che trova analogie e collegamenti col fascismo storico, seppur nelle differenze. Una prerogativa dell’estetica del decoro è quelle di guardare ai problemi senza tener conto della matrice sociale, per questo le politiche per il decoro “vanno a colpire le conseguenze e non le cause dei problemi”. In questo senso vediamo come il barbone che rovista nell’immondizia è considerato come “degrado” senza prendere in considerazione il tema sociale della povertà.

In questo contesto gioca un ruolo fondamentale la “norma”, ovvero l’elemento di giustificazione per perimetrare cosa è concesso e cosa no, come detto nel libro “anche la norma più brutale può diventare senso comune, ed è giustificata e giustificabile agli occhi della società.” Per questo l’ideologia del decoro si basa su un legalitarismo acritico e svuotato di ogni senso. Per esempio un graffito su un muro è “degrado”, mentre un cartellone pubblicitario che oscura un palazzo storico è accettabile in quanto tutelato da una norma. Qui, visto che il terreno di scontro è quello urbano, emerge chiaro un conflitto: a chi appartiene la città?
Ma se si è parlato molto di chi sono i soggetti colpiti da questa ideologia va anche detto chi sono i soggetti tutelati, ovvero gli investitori. L’idea di città che viene promossa è quella di “città vetrina”, sempre più attrattiva per i flussi turistici e svuotata dai suoi “indecorosi” cittadini. Tutto ciò in un contesto di evidente sproporzione tra sicurezza percepita e situazione reale in cui, citando Wacquant “il consenso politico si ottiene attraverso la criminalità, o meglio attraverso la paura della criminalità di strada”.

Queste politiche antidemocratiche e antipopolari emergono chiaramente nel recente decreto Minniti in materia di sicurezza urbana, anche questo preso in analisi nel libro. Quel decreto che fa del decoro il suo concetto cardine e che introduce limitazioni e misure repressive tra cui quella del daspo urbano.
L’ultima parte del libro è composta da un case study del famoso (o famigerato) blog “Roma fa schifo”. Uno specchio di questa società dominata dai sentimenti di paura e odio, con la rete che come una cassa di risonanza amplifica quei lamenti. All’interno del blog possiamo ritrovare gli stessi valori (o disvalori) che muovono i collettivi dei retaker ad attivarsi contro i graffiti. Così come tutte quelle forme di lotta al degrado che si celano dietro un civismo fintamente neutrale che agisce in nome del decoro.

Per concludere, il libro di Carmen Pisanello è senza dubbio un libro necessario, perché è una bussola che ci permette di orientarci in una situazione di forte disorientamento. Ci permette di leggere la realtà attraverso uno sguardo attento e minuzioso che districa le trame di nuove forme di controllo e repressione. Ci dimostra come il “demone della paura”, che sta alla base di queste politiche sia uno spettro irrazionale che si aggira per le nostre città, nato anche dall’impossibilità dei governi di rispondere localmente alle drammatiche problematiche sociali del nostro tempo, quelle si reali.

In nome del decoro – Dispositivi estetici e politiche securitarie”,di Carmen Pisanello, un saggio edito da Ombre Corte, 2017