La rivoluzione del Rojava, o meglio il processo rivoluzionario della Siria del Nord e dell’Est, in questi anni si è affermato come una esperienza totalmente innovativa e lontana dalle vicende che hanno contraddistinto i sommovimenti rivoluzionari soprattutto nel Novecento.
Durante il “secolo breve” sia nei casi in cui il rovesciamento del sistema capitalistico ha portato ad una vittoria finale, dando poi vita a regimi che nel corso del tempo hanno deviato completamente dai principi ispiratori, sia quando i movimenti non si sono “fatti Stato”, ma hanno modificato o perlomeno inciso, almeno per una fase, i rapporti sociali, nonché le culture dell’epoca, vedi il 68’, ciò che ha contraddistinto questi percorsi è stata la forte impronta “maschile”.
Se è vero che il decennio ribelle tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, ha generato il movimento femminista, è indubbio che in quel caso le organizzazioni politiche e i relativi movimenti della sinistra, riformista o rivoluzionaria, erano caratterizzate da un marcato maschilismo.
Ecco perché il Rojava e il relativo protagonismo delle donne, il ruolo decisivo avuto dall’altra metà del cielo nel processo di liberazione da Daesxh, il contributo fondamentale nel creare istituzioni, progetti, incentrati sulla democrazia orizzontale e partecipata, sono diventati presto un punto di riferimento imprescindibile per chi pensa ancora che sia necessario mettere in discussione alla radice il sistema capitalistico in cui ci troviamo a vivere.
Il processo rivoluzionario in quell’area del Medio Oriente è stato raccontato in numerose pubblicazioni da parte di chi dall’Occidente ha scelto di andare ad ingrossare le file della resistenza curda durante il durissimo conflitto contro l’Isis.
Capofila di questa narrazione è stato Karim Franceschi, il compagno di Senigallia che, giovanissimo, in due riprese, si è trasformato in partigiano.
Diversi giovani di varia nazionalità hanno perso la vita; per noi è d’obbligo citare Leone Orsetti.
Ma tra coloro che sono andati a sostenere concretamente la resistenza curda ci sono state molto donne.
E ora la loro esperienza è raccontata in un bel libro, Brigate Maddalena, storie di internazionaliste, edito da Kairos.
Un testo polifonico, quattordici capitoli in cui queste compagne, in forma anonima, raccontano la loro esperienza, ma soprattutto narrano il protagonismo delle donne curde e i progetti realizzati che rendono appunto questa vicenda qualcosa di unico, fino ad oggi, nella lunga storia del movimento socialista internazionale.
Donne come Sema, la prima donna sindaco del Rojava e probabilmente di tutta la Siria.
A 28 anni senza nessuna esperienza politica, aveva avuto una specie di “apprendistato” facendosi largo in ambito professionale come rappresentante di commercio nel settore dell’abbigliamento, trovandosi presto a fare i conti con un contesto estremamente avverso per una donna che voleva lavorare, ma nello stesso tempo riuscendo a farsi rispettare.
Poi con l’inizio della rivoluzione siriana ecco l’Accademia di formazione politica al femminile nei pressi di Derik e l’incarico a co-sindaco a fianco di un collega maschio. A dimostrazione di un quadro tutt’altro che idilliaco, ha dovuto lottare per il suo rispetto, anche in un contesto teoricamente amico, a dimostrazione di quanta strada ci sia ancora da fare.
Una strada dove è prezioso il ruolo di istituzioni come “La casa delle donne”, un progetto che affonda le sue radici, come altre esperienze sorte dopo la liberazione da Daesh, nella nascita del “Movimento confederale delle donne del Rojava”, inizialmente clandestino, con l’intento di “organizzare le donne e accrescere la loro coscienza politica attraverso lo sviluppo di attività democratiche dal basso e sradicare la mentalità del maschio dominante”.
Uno dei tanti percorsi fecondi basati su criteri democratici, sulla rotazione degli incarichi.
Una rivoluzione culturale, oltre che politica, che sta contagiando, nonostante una mentalità ben radicata, anche l’universo maschile, “perché questa società, questa terra, non saranno mai libera se le donne non saranno libere”.
Perché “la resistenza non è una storia da raccontare, non è il capitolo di un libro, la resistenza siamo noi, è la vita che diamo, la vita che vogliamo, la memoria che tramandiamo non come ricordo ma come promessa”.
E a proposito di memoria il nome delle Brigate si ispira a Maddalena Cerasuolo, partigiana napoletana che partecipò alla battaglia del Ponte della Sanità, durante le famose giornate, tra il 27 e il 30 settembre 1943, che fecero di Napoli la prima città ad essere liberata dall’occupazione nazista. Da Napoli al Rojava la resistenza continua.
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