di Rosella Simonari
L’espressione ‘la linea del colore’ è attribuita a Frederick Douglass, ex schiavo formidabile oratore e scrittore abolizionista che la utilizzò per il titolo di un suo scritto nel 1881 e che fu in seguito ripresa da W. E. B. Du Bois. “L’uomo di colore ha cessato di essere lo schiavo di un individuo, ma, in qualche modo, è divenuto lo schiavo della società”, dice Douglass mentre parla dei pregiudizi ancora radicatissimi negli Stati Uniti. E le sue parole formano un sinistro riverbero con la situazione attuale.
Prosegue sottolineando come la questione del colore, la linea del colore, sia radicata nell’orrore della schiavitù, nonostante il fatto che, in astratto, non vi siano pregiudizi contro il colore della pelle delle persone.
Secondo Steven Connor, il razzismo è, in parte, proprio una questione cromatica e ha a che fare con il significato culturale che diamo ai colori, per cui se il colore nero è storicamente collegato al diavolo (con lo zampino della Bibbia, direbbe Michel Pastoureau) e alla negatività, è chiaro che al nero culturalmente è affidato un ruolo negativo.
Igiaba Scego, nel suo ultimo libro, La linea del colore, lavora, in questo senso, su più fronti: a livello sociale, artistico, politico, geografico, storico, con un prologo eloquente sulla retorica coloniale ottocentesca, “Erano morti degli italiani. Erano morti in battaglia, o forse in un agguato (…). Cento cadaveri sul campo di battaglia. Duecento cadaveri, poi trecento. No, cinquecento. Cinquecento cadaveri italiani. Cifra tonda. Cinquecento morti in Africa Orientale”.
La protagonista del romanzo, Lafanu Brown, è di origine haitiana e nativa americana, ha i piedi grandi e desidera viaggiare. È una donna piena di coraggio e ambizioni, una donna che vuole diventare artista. Vive negli Stati Uniti prossimi alla Guerra Civile, si innamora di Frederick Bailey, che altri non è che Douglass, e parte per l’Europa, con la speranza di raggiungere presto l’Italia che l’attrae da tempo. Salvo poi essere bloccata in Inghilterra per anni, perché, secondo gli Stati Uniti di allora, una nera non poteva essere cittadina statunitense.
Un paradosso che ha echi profondi nell’oggi dove si svolge una vicenda parallela a quella di Brown e che ha per personaggio principale Leila, curatrice d’arte che studia la figura e l’arte di Brown. Leila ha una cugina in Somalia, Binti che tenta di raggiungere l’Europa vivendo traumi indicibili. Ecco così che le storie parallele seguono a tratti un simile percorso sulla linea del colore che oggi come allora riduce troppo spesso, e la morte di George Floyd ne è intollerabile tragico esempio, gli africani e afrodiscendenti a schiavi della società.
Scego sceglie sapientemente gli accostamenti fra una vicenda e l’altra, come quando parla della sagra del vino a cui partecipa Leila e dell’acquavite che schiavizza i nativi americani. Nonostante la prosa non sia sempre convincente e a volte sia difficile seguire gli articolati spostamenti temporali, vi sono numerose immagini poetiche, per descrivere il pianto, “lacrime come covoni di grano” o Roma, un altro ‘personaggio’ importante del romanzo, “si era accorta (…) che Roma era una foresta. Che in mezzo a quei ruderi malmessi facevano capolino innumerevoli bestie dal respiro incantato e vorace. Alcune di carne e sangue, altre di pietra e di marmo”.
Scego riesce a dipingere (è proprio il caso di dirlo) quadri di vita e relazioni che vanno oltre gli stereotipi per far pensare e ripensare a chi legge i rapporti fra le persone di qualsiasi colore esse siano, a cominciare dai termini ‘negra’ e ‘nera’ usati in maniera dialogica e volti a decolonizzare anche l’uso che si fa della lingua. Importante poi la sezione iconografica finale che porta a ragionare sul passato coloniale insito nei monumenti, dipinti e tombe, aspetto necessario e oggi più che mai attuale.
La linea del colore, di Igiaba Scego, Bompiani, 2020, pp.384