La rivolta dentro e contro l’officina

figli dell'officina

Naturalmente ho commesso nella mia vita una quantità di sbagli,
piccoli o grandi, che possono avere la loro origine in questa o in quell’altra ragione,
ma alla radice della questione,
ogni volta che ho commesso uno sbaglio,
sta il fatto che non sono stato abbastanza radicale.

J-P Sartre [1]”.

di: Francesco Filippini

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ritrovato interesse per l’organizzazione Prima Linea [2], uno dei capitoli, ancora oggi, più misconosciuti, fraintesi e vilipesi della lotta armata in Italia.In effetti nell’immaginario di ciò che resta della sinistra radicale, esistono rappresentazioni in buona parte distorte: un’organizzazione minoritaria rispetto alle Brigate Rosse, priva di una coerente linea politica, quindi di una conseguente elaborazione teorica, ma soprattutto “predisposta geneticamente” al pentimento in ragione delle soggettività che la componevano, laddove è bene ricordarlo, nessuno dei suoi fondatori si è pentito.

 

Il libro Figli dell’Officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976), edito da Derive Approdi e scritto da uno dei protagonisti di quella storia, Chicco Galmozzi, prende in esame il periodo di incubazione che portò nel 1976 alla fondazione dell’”aggregazione comunista combattente” Prima Linea, passando per Senza Tregua e i Comitati Comunisti per il potere operaio, laddove l’intento principale di chi scrive è quello di affermare, senza timore di essere smentito, le radici di questa formazione nelle viscere delle vicende della conflittualità operaia di quel decennio che ancora oggi risulta difficile da maneggiare e scomodo per la ricostruzione storica operata dalla sinistra “ufficiale”.

L’autore non cede su questo punto, l’internità riguarda una minoranza della classe operaia di fabbrica, ed è proprio su questo postulato che si basa la scommessa politica che verrà tradotta nello slogan “la minoranza che agisce da maggioranza”, intendendo che il compito della minoranza “non è quello di attendere che le condizioni oggettive rendano possibile conquistare il centro e isolare la destra ma quello di creare le condizioni per questi passaggi a partire dal proprio agire soggettivo [3]”.

Contro ogni  scoria oggettivista e residuo meccanicista il soggetto rivoluzionario, l’operaietà potremmo dire, non può essere pensata deterministicamente a partire dalla sua collocazione nel processo produttivo, ma colta solo a partire dalla sua composizione politica determinata dai comportamenti soggettivi; ma che la classe operaia sia una questione di forza e non di “mani callose”, dobbiamo ancora sprecare tempo a ripeterlo?

Agli occhi di una parte della sinistra extra-parlamentare era ormai evidente la compiuta trasformazione del Partito Comunista Italiano in partito “responsabile” di governo, così come il declino degli istituti storici del movimento operaio, che diventavano ingranaggi fondamentali della ristrutturazione e della riorganizzazione del meccanismo di accumulazione del capitale.

Sotto il peso della crisi, allora come oggi, gli interessi materiali e politici dei diversi segmenti di classe si diversificano: nell’area della cosiddetta “aristocrazia operaia”, l’operaio professionale con la sua etica del lavoro, diventa ormai esplicita la collaborazione di classe e la subordinazione operaia all’interesse capitalistico, così come l’”operaio massa” attraverso il suo “rifiuto del lavoro”, afferma con tutta la sua forza il suo interesso autonomo e di parte.

Lo schema “fabbrichista” non verrai mai meno in Prima linea: è l’assoluta centralità della fabbrica, ovvero la necessità di operare una battaglia politica all’interno della classe operaia a guidare lo sforzo combattente dei militanti dell’organizzazione.

La nascita di questa tensione apertamente rivoluzionaria nella classe produce una forte domanda politica, che da alcuni verrà scambiata per delega, mentre Prima Linea cercherà di intendere l’organizzazione non come separazione tra una parte della classe passiva ed attendista ed una ristretta minoranza super attiva che si sostituisce al suo compito storico, ma sul rapporto dialettico tra lo strumento di lotta rivoluzionaria che è l’organizzazione e lo sviluppo dell’“anima” rivoluzionaria della classe a scapito di quella di “forza-lavoro”, cioè di merce particolare del sistema capitalista.

L’assioma che, conseguentemente, adotterà Prima Linea si differenzia così da quello di “Partito combattente”, perché “aggiornando il vecchio slogan operaista alla classe la strategia, al partito la tattica”, ora all’organizzazione è affidata una funzione di servizio di una domanda di organizzazione della violenza e della forza che proviene dai punti più alti dello scontro sociale, in procinto di dispiegarsi sul terreno del potere.

Un asse importante del libro riguarda il rapporto “scandaloso” di questa “parte” operaia con l’uso della forza, anche se è bene ricordare che tutti i gruppi extra-parlamentari, dal ’68 in poi, fondano la loro proposta politica sulla critica feroce alla cosiddetta “via italiana al socialismo” e al riformismo, a cui viene contrapposta un’imminente rivoluzione violenta e armata.

L’adozione di forme di lotta sempre più dure nasce anche e soprattutto dalla volontà, minoritaria quanto si vuole, di non assecondare senza colpo ferire il primato del capitale sul lavoro: a questo proposito viene ricordata l’importanza dei “decreti operai”, vere e proprie forme embrionali di contro-diritto.

A partire dalla forza dispiegata in fabbrica si tratta di fare cominciare a funzionare un “potere costituito, una decretazione proletaria che si imponga in termini coercitivi e come legalità alternativa [4]”. Si dispiega la capacità operaia di esprimere decreti che diventano elementi concreti di esercizio della dittatura proletaria (prezzi calmierati, tassazione ai ceti elevati,…).

Mentre l’attività di rappresaglia non riguarda solo lo macchina statale ma anche l’intensa attività squadristica dei fascisti. Da questo punto di vista la rappresaglia ha “un significato immediato come potere di interdizione nei confronti delle aggressioni fasciste e uno simbolico: niente resterà impunito [5]”!

E’ anche su queste terreno che il movimento si misura, cioè sulla sua capacità di tradurre in pratica elementi di programma affermati nelle lotte, gli slogan gridati in massa ai cortei diventano prassi politica.

Le pratiche di contropotere, a dire il vero, non esulano da una acuta riflessione sulla modernità (in questo senso sembra recepita la riflessione foucultiana), nella misura in cui ambiscono, non a una rottura esplicita degli assetti istituzionali (una presa del Palazzo d’Inverno  per intenderci), ma ad un molecolare ribaltamento dei rapporti sociali, all’apertura di spazi di autonomia che logorino dall’interno il potere disciplinare della macchina burocratica-capitalista.

Riemergerà in tutta la sua drammaticità anche nell’omicidio del giudice Alessandrini a Milano nel 1979, la “ritrosia” di Prima Linea a individuare un “cuore dello stato” a tutto vantaggio di una visione reticolare del potere, di cui sono rivelati i nessi di collaborazione fra i vari corpi dello stato e i principali attori politici.

Nelle categorie di Prima Linea grande rilevanza assume la categoria di “blocco nemico”, che vuole ricomporre nella teoria di un antagonismo molecolare, la complessità della società a capitalismo avanzato. Con “blocco nemico” si intendono tutte quelle categorie sociali che ricoprono una funzione di comando analoga a quelle delle forze dell’ordine o del potere politico, basti pensare agli psichiatri o al personale medico che pratica aborti clandestini, oppure coloro che rappresentano i valori fondamentali della società capitalista, ad esempio i commercianti.

La “scienza rivoluzionaria” di Prima Linea corrispondeva, infatti, ad un’analisi delle modificazioni del capitalismo che entrava in quegli anni in un divenire-molecolare e che registrava la conseguente disgregazione del movimento operaio: alla frammentazione dell’industria e del lavoro in generale corrispose quella della stessa soggettività di classe. Sembra quasi, a questo proposito, che qualcuno se ne fosse accorto, e che avesse intravisto il “tramonto” piuttosto che l’ “alba del sol dell’avvenire”, individuando come la posta immediatamente in gioco dello scontro non fosse tanto l’instaurazione del comunismo, ma una lotta per la sopravvivenza: ovvero “si combatte(va) per non morire, per non sparire come soggetto storico[6]”.

Verrebbe quasi voglia di dargli ragione…

 

NOTE:

[1] J.-P. Sartre, Autoritratto a settantanni, Il saggiatore, Milano, 2005, p. 76.

[2] Cfr A. Tanturli, Prima Linea. L’altra lotta armata (1974-1981), Derive Approdi, Roma, 2018.

[3] C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976), Derive Approdi, Roma, 2019, p. 80.

[4] Ivi, p. 152

[5] Ivi, p. 209

[6] Ivi, p. 9