Il desiderio di fascismo

di: Francesco Filippini

“E’ sempre per un desiderio che si lotta e si muore” (Lacan, 1966).

Questo contributo vuole indagare i nuovi volti del fascismo con i quali siamo convocati a misurarci: ci avvaleremo, per provare ad aggredire le metamorfosi fasciste, dei contributi di alcuni filosofi più o meno contemporanei, con la ferma consapevolezza che la prospettiva che dobbiamo abitare non è quella di superare la prassi alla volta della teoria, ma al contrario, di sostenere una tensione sempre aperta tra l’una e l’altra, al cuore della quale l’attività teorica non residua affatto, ma piuttosto approfondisce e potenzia l’agire politico. Del resto i concetti slegati da una prassi girano a vuoto come l’agire senza bussola rischia di smarrirsi.

Nonostante lo sdoganamento mediatico e il continuo agitare dello spauracchio fascista da parte di giornali e talk show, ormai da parecchi anni c’è un vuoto impotente per quel che riguarda un ambito più generale di ragionamento, discussione e azione di contrasto nei confronti, non tanto delle nuove micro-organizzazioni fasciste, quanto del fenomeno “fascista” considerato nei suoi aspetti culturali, antropologici, esistenziali. Il fascismo è sicuramente riconducibile a gruppi, organizzazioni, partiti, sindacati, forme di governo, ma è anche una forma di socialità, di comunità, di eticità, cioè una forma di vita.
Per comprendere il fascismo in tutta la sua portata, come suggeriscono Deleuze e Guattari, è sempre necessario affiancare la prospettiva “molare” (inerente alle grandi strutture come Stati, partiti e forme di governo) con una prospettiva “molecolare” (specifica invece della postura etica e della sfera esistenziale). È importante non lasciarsi sfuggire anche quest’altra dimensione del fascismo: essa permane (trasformandosi) a prescindere dalla forma Stato. Il fascismo non è solo politica ma anche “desiderio”: per questo non risparmia nessuno. Il fascismo come “sentire di massa” è il nuovo fascismo che s’insinua nei linguaggi, nelle anime, nei gesti, nei corpi e nelle forme di vita delle masse, dai commenti che ascoltiamo tutti i giorni al bar, al silenzio di chi assiste alle aggressioni razziste finoalla possibilità che gli omofobi possano aggredire nel centro delle nostre città un ragazzo perché troppo “effeminato” e se ne possano andare via tranquillamente e incolumi.

Ritengo sia importante interrogarsi su quando sia cominciata l’invasione delle pratiche discorsive e dell’immaginario razzista e fascista, perlomeno per quello che riguarda le nostre società occidentali, che per ovvie ragioni, rimarranno al centro del nostro ragionamento. E’inutile ricordare come prima della crisi economica parlare di quello che siamo soliti chiamare fascismo era considerato un esercizio retorico, sterile e fuori discorso. Magicamente il significante padrone della crisi ha disseppellito questa parola fuori moda che era rilegata ai margini della storia. Da quel momento un’ideologia fluttuante fascista si è fatta portatrice di una paura di fronte ai processi di mondializzazione e globalizzazione in atto nei sistemi democratici occidentali. Ci tengo a precisare che questo intervento non si soffermerà, perché la questione richiederebbe un’ampia trattazione, sulla questione se la parola “fascismo” possa cogliere e inquadrare qualcosa rispetto al reale in gioco, accantonando, almeno per il momento, questo problema.

Pier Paolo Pasolini è stato un autore che ha suscitato da sempre un certo sospetto e ha avuto un rapporto travagliato con i movimenti, però ritengo importante soffermarsi su una delle sue intuizioni, secondo cui il “nuovo fascismo”, non aveva tanto a che fare con le rinate organizzazioni fasciste dopo la fine della seconda guerra mondiale e la Liberazione, ma con il potere di plasmazione delle vite e delle coscienze che il nuovo “sistema dei consumi” era riuscito a produrre dagli anni sessanta in avanti. Il dominio, sembra dirci Pasolini, non si fonda tanto sui “chilogrammi di conquiste”, quanto sulla capacità di produrre un immaginario, assorbito dalla tecnica e dall’economia. Questa tesi, in sé sicuramente discutibile, ha un grande merito, quello di emancipare il fascismo dal problema della sua eventuale riorganizzazione politica, che secondo l’autore dei Ragazzi di vita era un fenomeno del tutto residuale, per ricondurlo a un grande tema “antropologico”.
Pasolini scrive: “questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di un’irregolamentazione superficiale, scenografica, ma di un’ irregolamentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo” (Pasolini, 1975). Il fascismo come rinuncia al pensiero critico, omologazione e irreggimentazione, il fascismo come normalità, per cui potremmo dire che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine di queste relazioni sociali”.

Quello che Pasolini sembra suggerirci è che la vera minaccia rappresentata dal “fascismo” oggi, non è tanto il fascismo come regime politico-militare di tipo repressivo, ma il suo desiderio, il suo fascino, la sua presa seduttiva sulle masse. Dello stesso parere è Reich che in apertura di Psicologia di massa del fascismo nota che il vero problema non è tanto il perché le masse abbiano sopportato passivamente l’oppressione del fascismo, ma perché lo abbiano così ardentemente desiderato. Ecco il punto che la crisi del nostro tempo sembra aver riesumato: è possibile desiderare il fascismo? Esiste una spinta ad adorare il padrone, un inconscio disturbato dal nazionalismo, un desiderio fascista?

Se prendiamo sul serio questi spunti, ci accorgiamo di come la vecchia interpretazione fondata sull’opposizione radicale tra fascismo e democrazia viene a perdere centralità e consistenza, nella misura in cui, sempre di più, il fascismo non è altro che una “peripezia interna” al funzionamento del diritto nelle democrazie contemporanee. Già Agamben aveva rilevato una stretta solidarietà tra regimi democratici e sistemi totalitari, così come per Foucault il nazismo non è altro che l’esasperazione di dispositivi disciplinari già operanti a partire dal XVIII secolo: i biopoteri che svolgono un ruolo fondamentale nell’instaurazione e consolidamento del liberalismo. Insomma, secondo l’indicazione che ci dà Foucault, per comprendere l’ascesa del fascismo bisogna indagare le radici biopolitiche della democrazia, come se il “bacillo” fosse una piega nel seno dei sistemi democratici e non già in un fantomatico fuori. Non dimentichiamoci, infatti, di come fascismo e nazismo, rispettivamente in Italia e Germania, arrivarono al potere.

Ci accorgiamo sempre di più di come la lettura del fascismo che si irretisce sulla riesumazione di vecchi spettri è sempre di più destinata allo scacco.
Nondimeno sorgono alcune questioni, per esempio, per tornare all’attualità, come inquadrare i decreti Minniti-Orlando approvati dal Parlamento italiano – che prevedono oltre l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari, l’introduzione del lavoro volontario per i migranti e il cosiddetto daspo urbano –, senza introdurre i significanti “fascismo” e “razzismo”?

Quello che mi sembra di poter affermare, sulla scorta di quanto detto, è che l’assetto sistemico delle nostre società è un’inquietante zona grigia, in cui fascismo, razzismo e democrazia si sono progressivamente tra-sfigurati, confusi, ibridati, creando un piano di consistenza comune che li ha resi indiscernibili. Proprio a causa di questa dimensione diventa sempre più difficile “tirarsi fuori” dal problema del razzismo e del fascismo.
Piuttosto che essere una politica e un’economia di guerra, il nuovo fascismo è un’intesa globale per la sicurezza, per la gestione di una “pace” non meno terribile, con l’organizzazione concertata di tutte le piccole paure, di tutte le piccole angosce che fanno potenzialmente di ognuno di noi dei micro-fascisti, pronti a soffocare ogni volto, ogni parola un po’ forte, nella propria strada, nel proprio quartiere, nel proprio cinema (Deleuze, 1977).
Deleuze insiste sul fatto che, invece di preoccuparsi delle vecchie forme di fascismo, bisognerebbe temere la generalizzazione della sicurezza come imperativo assoluto, come diritto che ha sempre più diritto degli altri. Nel momento in cui la sicurezza diventa “totalitaria”, nel senso che tende a imporsi sia come paradigma fondamentale dell’azione di governo degli Stati che come desiderio sociale, della democrazia fondata sullo Stato di diritto non resta più nulla. L’attuale “società di sicurezza” mostra concretamente quale possa essere la deriva fascista della governamentalità democratico- liberale, senza che si debba per forza scomodare il fascismo storico. La sicurezza è dunque al di sopra della legge non in quanto pretende di svincolarsi, a torto o a ragione, dal vincolo normativo costituito dalla legge, ma in quanto instaura, come ripete Agamben a mo’ di ritornello, uno stato di eccezione permanente, che a sua volta comporta una disattivazione permanente dei principi basilari dello Stato per come lo abbiamo conosciuto finora.

Il desiderio dell’uomo comune, è l’amara constatazione di Freud ne Il disagio della civiltà, è che è disposto a barattare un po’ della sua libertà per qualche briciola di sicurezza, e oggi ne vediamo tutte le conseguenze
Cosa fare di fronte a tutto questo? Non riserverò molto spazio alla risposta a questa complessa domanda, perché credo che la questione debba essere dispiegata in una riflessione e in un ragionamento collettivo, rispetto al quale questo articolo può porre alcune parziali e insufficienti suggestioni, oltre ed evidenziare alcune contraddizioni.
La tradizione alla quale dobbiamo richiamarci è quella di custodire il fuoco e non adorare le ceneri. Non per fuggire dal mondo ma per andarci in modo diverso. Chi è interessato a combattere questo ordine discorsivo è chiamato ad inventare ex novo un nuovo antifascismo, un antifascismo che si costituisca come una macchina desiderante molare e nomadica, che inventi una politica di sperimentazione contro qualsiasi irrigidimento identitario o nazionalistico, per produrre un desiderio inedito e nuove concatenazioni. Dissolvere l’Io che vuole sicurezza al posto della libertà per accedere alla dimensione del comune. Una pratica politica che sappia canalizzare una nuova energia, nuovi investimenti della libido, un nuovo desiderio da immettere nella sfera pubblica, costituisce la migliore “terapia” per rinsaldare il legame sociale e il fare comunità.