di: Francesco Fanesi
Lotta armata o terrorismo? Violenza soggettiva o necessità oggettiva? Violenza d’avanguardia o avanguardistica? Questi sono tra i quesiti che appassionati e studiosi affrontano da sempre quando si misurano con il tema della violenza intesa come “categoria del politico”. La riflessione che Gabriele Donato ci propone nel suo “La lotta è armata” (Derive Approdi) un pregio lo ha ovvero non tenta – per quanto possibile – di propinarci l’ennesimo giudizio di parte sulle dicotomie sopra citate attraverso sermoni sulle dottrine marxiste, leniniste, soreliane o quant’altro; si limita a focalizzare un’attenzione più asettica possibile su di un ambito ben delimitato nel tempo e nello spazio: la nascita e lo sviluppo che ha avuto l’opzione armata come forma di lotta politica nel dibattito interno alla sinistra extraparlamentare italiana negli anni 1969-1972, dai suoi albori teorici fino alle sue prime attuazioni pratiche.Come è nata, come si è sviluppata, in che termini e da chi è stata discussa all’interno della sinistra rivoluzionaria l’ipotesi dell’uso sistematico della violenza politica nei mesi successivi all’“autunno caldo”? Come si è arrivati dall’elaborazione teorica, attraversando lo spontaneismo, agli “anni di piombo”? Queste sono le domande cui l’autore tenta di rispondere attraverso un’analisi serrata e fin troppo esaustiva dall’infinita pubblicistica prodotta dalle maggiori organizzazioni extraparlamentari dell’epoca, su tutte Potere Operaio, Lotta Continua e Cpm (future Brigate Rosse).
La tesi di Donato è semplice e tutt’altro che innovativa ma sostanzialmente condivisibile: il ricorso alle armi prima ipotetico e poi via via sempre più messo in pratica è sostanzialmente entrato nei ragionamenti della sinistra antagonista in reazione alla “rivoluzione mancata”; rivoluzione attesa e data per certa dopo il biennio ’68-’69; cioè dopo i grandi movimenti di radicale contestazione, che avevano prodotto in certi ambienti un clima messianico di attesa del radicale mutamento dei rapporti di forza nella società.L’undici settembre 1969, con uno sciopero nazionale dei metalmeccanici, ha dunque inizio l’“autunno caldo”. Con le battaglie all’interno delle fabbriche, negli ambienti operaisti si inneggia al “grande balzo in avanti” di ispirazione maoista.
In quel magma si forgiarono dirigenti e militanti della sinistra rivoluzionaria, quella decisa nel rifiutare obbiettivi intermedi e convinta dell’inevitabilità di una rivoluzione cui occorreva prepararsi. Ma un primo brusco risveglio si ebbe già il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana che sancì l’avvio della “reazione” di quei poteri occulti in funzione anticomunista (con cui ancor oggi siamo costretti a fare i conti) e soprattutto la vittoria del “riformismo” concretizzatasi con l’approvazione in parlamento dello Statuto dei Lavoratori nel maggio ’70, grazie alla decisiva astensione del PCI.
Nel ’71 il clima peggiora ancora: nelle istituzioni, con l’elezione grazie ai voti dell’MSI di Giovanni Leone a Presidente della Repubblica, e nelle piazze con una repressione poliziesco-giudiziaria senza precedenti. Il 1972, con il ritorno alle urne e la conseguente vittoria del centro destra andreottiano e con il significativo e contemporaneo calo numerico della contestazione radicale sia a livello di piazza che nelle fabbriche, rende evidente ai movimenti una dura realtà: il sessantotto in Italia non è una rivoluzione sociale, ma solo un annuncio di rivoluzione. Donato sostiene che è da qui, dalla paura di riflusso, dalla disillusione per l’imminenza della svolta rivoluzionaria, che l’opzione armata, fino a quel momento più discussa che realizzata, prenderà definitivamente il sopravvento con l’egemonia, anche estetica, di brigate Rosse e Prima Linea.
Potremmo dire, semplificando un poco, che Piazza Fontana e gli accordi sindacali ottenuti dai riformisti hanno sconfitto lo “spontaneismo” del biennio ’68 – ’69; dall’analisi dei documenti che ci propone Donato si evince chiaramente che dopo il 1970 l’idea di rivoluzione non potesse più essere considerata un momento insurrezionale da attendere, essa poteva e DOVEVA ora essere ORGANIZZATA. Ed anche gli obiettivi cambiano: scrive M. Moretti (BR) “si tratta di riconoscere che il sistema capitalistico non può reggersi senza l’appoggio dei revisionisti (sindacati e partiti di sinistra NdA) e che questi divengono, obiettivamente, i più pericolosi avversari di classe”. Dunque lo spostamento del conflitto dal terreno economico – rivendicativo a quello politico: lo Stato ed i suoi rappresentanti. Il ragionamento si palesa durante gli scontri alla manifestazione per il primo anniversario della strage alla Banca dell’Agricoltura: a Milano, i servizi d’ordine dei gruppi (AO e LC su tutti) per la prima volta contrattaccano affrontando apertamente la polizia.
Di fatto da qui in poi il dibattito (notevole) all’interno della sinistra rivoluzionaria non verterà più sulla leicità o meno dell’uso della violenza come lotta, bensì sulle sue pratiche.Forse proprio in questo momento storico sta l’errore più grande (non l’unico), a mio parere, di tutte le elaborazioni teoriche di movimento dell’immediato post ’68 e cioè l’aver creduto possibile “un processo rivoluzionario senza soggetto sociale”, ovvero senza le masse; “l’intenzione di ricorrere alla violenza non si diffuse sulla base di spinte di massa incontenibili, non fu la conseguenza di una crescita impetuosa delle idee rivoluzionarie; si configurò, al contrario, come un tentativo di reagire alla crisi di consenso dei gruppi extraparlamentari”.Il resto lo fecero il clima di violenza diffusa (e incontrollata), le citate elezioni con la vittoria del blocco conservatore e le pesanti conseguenze, anche in termini di scelte, conseguenti l’omicidio del commissario Calabresi, tutto nel 1972. Circostanze che precipitarono la sinistra rivoluzionaria ed una grande fetta dei suoi militanti verso il partito armato, spazzando via ogni diversa opzione in campo, rompendo gli indugi nel senso della clandestinità, dell’uso delle armi per le azioni “esemplari” che caratterizzeranno poi l’intero decennio e oltre.
La lotta è armata di Gabriele Donato, Ed. Derive Approdi 2014, 384 pp. (Pagina FB del libro)