Qualche considerazione a partire dal film “Sulla mia pelle”

“[…] uno stato di polizia a grande richiesta – e poi ti lamenti se lo sbirro ti pesta […]”.
Giorgio Canali & Rossofuoco, Risoluzione strategica #6

di: Francesco Filippini

Non è facile scrivere una recensione di un film che non si ha ancora visto, per questo sposterò l’asse del ragionamento su una domanda: che senso ha guardare e discutere collettivamente intorno al film Sulla mia pelle, che racconta gli ultimi sette giorni in vita di Stefano Cucchi, morto nell’ottobre del 2009 nell’ospedale romano Pertini, una settimana dopo essere stato arrestato e trattenuto nella caserma di Tor Sapienza, dove venne brutalmente pestato da alcuni solerti agenti? Perché, a degli attivisti, che mirano alla trasformazione radicale dell’esistente dovrebbe interessare la vicenda di questo giovane geometra, diventato suo malgrado (probabilmente non lo avrebbe voluto) simbolo della sinistra radicale e di tutto il marcio che cova nelle celle di sicurezza delle questure e nei sotterranei dei tribunali?

Credo che in gioco ci sia qualcosa che vada al di là dell’odio spontaneo per gli sbirri e per il codice penale, ma che in qualche modo questa drammatica vicenda possa dire qualcosa della congiuntura politica che stiamo attraversando.

Anzitutto i protagonisti sono due: il ragazzo “sbandato”, il “tossico”, come viene chiamato da molti, anche a sinistra, per liquidare il più in fretta possibile una vicenda con la quale è per tutti doloroso fare i conti. La vox “populista” ci rassicura che è accaduto a lui e sicuramente non può accadere ai bravi cittadini o padri di famiglia, che sicuramente vanno a prostitute o tirano di cocaina, ma in qualche lussuoso club e non popolano i bassifondi delle nostre città. Insomma, psicoanaliticamente, è all’opera immediatamente la rimozione del cuore osceno e dell’eccesso che dimora in ogni essere umano, per proiettarlo il più in fretta possibile nello straniero o in chi vive ai margini. E poi c’è Ilaria, sorella di Stefano, radicalmente diversa da una Maria che implora pietà, quanto piuttosto una moderna Antigone che è pronta a scagliarsi contro i rappresentanti della legge della città per dare una degna sepoltura e finalmente pace al corpo del fratello oltraggiato e offeso da politicanti e benpensanti.

Tutti abbiamo visto quella foto di Stefano e i segni sul suo corpo.

Stefano Cucchi è la vittima di un paradigma iper-securitario, di una concezione patibolare e quanto mai popolare della legge, di un iper-inflazione della norma che ormai governa ogni ambito della nostra vita (perfino mangiare un panino come abbiamo visto a Firenze negli ultimi giorni). Come già Freud aveva osservato, nella sua opera probabilmente più politica, Il disagio della civiltà, “l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza” e oggi questa questione è di nuovo al centro dello scontro politico, la contraddizione tra richiesta di sicurezza e forme di libertà. Nessuna epoca come la nostra ha visto una diffusione di massa della libertà nella sua declinazione liberale, ma quando la precarietà sociale, l’instabilità, i flussi migratori, raggiungono il loro zenit, la pulsione gregaria che invoca l’identificazione con un capo può sempre ritrovare il suo vigore. Perché è facile immaginare che quando siamo imprigionati il nostro spontaneo movimento è quello di evadere e fuggire verso la libertà, per parafrasare il titolo di un film di successo, ma il paradosso che viene messo in luce studiando la psicologia del fascismo è il movimento contrario, che è molto più problematico, perché spingerebbe le masse a rifiutare l’esperienza apparentemente più desiderabile della libertà. La schiavitù, l’asservimento, la dipendenza, il bastone, diventerebbero oggetti di desiderio. Nietzsche parava della nostalgia della terra che attanagliava il marinaio, abituato per tutta la vita con il suo battello a solcare il mare, oggi nostalgia del suolo e del sangue, dell’identità condivisa di un gruppo etnicamente omogeno, del confine, della prigione, del padre padrone, della repressione, della schiavitù, della bandiera della Grande Nazione.

Ci troviamo di fronte ad un nodo quasi antropologico, ma anche politico: l’inquietudine della libertà o la radicalizzazione della propria identità? Siamo, come ricordava Sartre “soli e senza scuse”, il cielo sopra le nostre teste è vuoto, consegnati alla responsabilità della libertà e in questi termini la libertà è indissociabile dall’esperienza dell’angoscia, cioè dall’esperienza della scelta, ed è questo il “peso” della libertà, perché la libertà non è solo qualcosa di leggero, ma la libertà è anche la responsabilità della scelta sulle nostre vite che ci incalza continuamente. La scelta veramente libera (e non quella liberale) è una scelta in cui io non scelgo semplicemente tra due opzioni all’interno di un insieme prestabilito di coordinate (come quello del mercato), piuttosto io scelgo di cambiare proprio questo insieme di coordinate. Se vogliamo è proprio questa la differenza tra libertà “formale” (liberale) e libertà “reale”: la prima si riferisce alla libertà di scelta entro le coordinate delle relazioni di potere esistenti, mentre la seconda designa un intervento che mina queste stesse coordinate. L’esperienza della libertà è proprio per questo qualcosa di vertiginoso, spesante, perturbante, è un’esperienza che ha a che fare con il nulla, ma soprattutto la vera libertà è il riconoscimento che senza l’Altro siamo condannati alla galera. Siamo convocati a confrontarci con questa “verità scomoda”, con-dividere il nostro pensare e il nostro agire, organizzarsi, abbandonando ogni vittimismo e fiducia riguardo le leggi dell’Ideologia o della Storia, per produrre a partire dalla politica, nuovi modi di stare insieme nel deserto del contemporaneo che accrescano la nostra potenza di agire. Perché la militanza “non è un aspetto specifico: è il nostro punto di vista, è la nostra forma di vita, è quello che siamo, quello che diciamo, che pensiamo. Il militante è colui o colei che mette interamente in gioco la propria vita”.

Per concludere, la storia che racconta questo film è la storia di un “perdente”, di qualcuno che è della nostra parte e anche la storia di una sfortuna che ha assunto torni universali ma che è diventata battaglia collettiva per chiedere il reato di tortura, insieme per i numeri identificativi sulla divisa, insieme per combattere le pratiche di malapolizia. Perché in tempi duri come questi, non ci può essere altra parola d’ordine che, come suggeriscono i Wu Ming, salvarsi il culo il più collettivamente possibile.

Venerdì 14 settembre, il film verrà proiettato a Senigallia e Fano con la presenza di Ilaria Cucchi (sorella di Stefano) e Fabio Anselmo (avvocato di famiglia).
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Senigallia: https://goo.gl/9TwD12
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